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“Paradigm shift“, il cambio di paradigma per il quartetto John Petrucci, Mike Portnoy, Tony Levin e Jordan Rudess è una sparata di sedicesimi a 200 bpm.
Bravi, interessante il loro (liquid tension) experiment, ma le innovazioni in comunicazione raramente si verificano in questo modo (leggi: dirompente, improvviso, rapido, impattante).
Questo non significa che non si verifichino, anzi, in questi ultimi tempi ne stiamo vivendo una importantissima in prima persona.
Eppure lo shift ce lo siamo dovuti inventare quasi “di sana pianta”, con una formula, un tag appiccicato a una cosa che conoscevamo già e che abbiamo assurto a nuovo paradigma, una nuova filosofia che indirizzasse l’utilizzo di strumenti già noti: il web 2.0.
(un tag) Talmente figo, così dannatamente cool da conoscere una fortuna straordinaria, in qualche modo “disruptive”, “new” o qualsiasi altra parola inglese possiate usare per mascherare poca sostanza.
Ma attenzione: “in qualche modo”, e a voler esssere precisi nel modo in cui può esserlo qualcosa che fa tendenza, che genera mode e colpi di fulmine, roba passeggera, che vive della leggerezza di cui si alimentano le novità del momento.
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